mercoledì 18 novembre 2015

FUKUJAMA E LA DIASPORA SOCIALISTA




Che il popolo socialista non si incazzi per queste poche righe. Non costituiscono un saggio (non ne ho le competenze) e men che meno una entrata a gamba tesa nel dibattito in corso per sposare una tesi piuttosto che un'altra (non sono così importante). Allora cosa sono ? Mettiamola giù così, con una similitudine: se, per una delle tante aree di crisi tribali, l'ONU dovesse scegliere un osservatore per capirci qualcosa e, magari, studiarci sopra qualche rimedio, chi meglio di uno che proviene da quelle lande potrebbe svolgere il compito? Uno pure con la saggezza dell'età, con la giusta e ormai maturata equidistanza, che osservi col cannocchiale dalle colline lontane i fuochi di sbarramento e di artiglieria più o meno pesante e ne tragga alcune riflessioni? 

Magari sconnesse, come le mie, perché in una forma o l'altra ancora coinvolto. 
Eccomi allora con le carte in regola: già-socialista (la particella ex l'ho sempre odiata, troppo meccanicamente secca), su mandato osservo per il tempo necessario e rifletto. E scrivo non solo degli aspetti tristi ma anche di alcuni aspetti positivi che mi sembra per fortuna di cogliere. E citando tutti i protagonisti che stimo (con quasi tutti sono amico, quelli che mancano all'appello amicale è semplicemente perché non ci conosciamo): da Nencini a Rometti, per passare ai Di Lello e Bastianelli e per finire con Bartolomei, Labellarte e Potenza. 

Con una attenzione alla Storia, quella vera, molto spiccata: perché tutto può iniziare, almeno il nostro racconto, da Fukujama. Credo fosse il 1989 o giù di li quando quel giornalista amerikano, sul NYT, scrisse un articolo titolato “La Storia è finita”: in esso sostanziava la tesi storico-politica abbastanza avventurosa per l'epoca ma poi avveratasi nei fatti, che il secolo ventesimo, di gran lunga il più importante per la evoluzione del genere umano, era stato segnato dal conflitto tra due ideologie, il marxismo ed il liberalismo, che si erano affrontate con ogni mezzo a loro disposizione. 

Il primo (vado a spanne per esigenze di sintesi e mi fiondo soltanto sul lato economico-sociale perché quello mi serve), come è risaputo, aveva la sua base ideologica nel soddisfacimento complessivo dei bisogni delle classi meno abbienti anche e soprattutto tramite il controllo statale dei mezzi di produzione e un sostanziale dirigismo in campo economico e sociale. Qualcuno definì a tempo debito Sinistra tutto ciò. Il Comunismo, come risaputo, ne è stata la Forza Politica di riferimento che, andata al potere, lo ha gestito in nome e per conto di quegli obiettivi. L'unica peraltro. 

Il secondo, in omaggio ad una spasmodica attenzione al libero mercato come tutela dei bisogni del singolo individuo, proclamava un capitalismo senza regole e condizionamenti. Qualcun altro definì Destra ciò e dentro a quella definizione agirono tutti i Partiti Conservatori che ne divennero il braccio più o meno armato. 

La contrapposizione dinamica, scrisse Fukujama, agli albori del duemila era ora terminata con la vittoria del secondo sistema e, quindi, in un certo senso, la Storia era finita. La grande, immensa, Storia del novecento. 

Vabbè, voi direte, ma che c'entra con la diaspora in questione? 

Al tempo. Perché il giornalista, in una delle tante interviste successive (l'articolo fece un enorme scalpore), a precisa domanda disse che, mentre la prima Forza aveva certo figliato nel corso del secolo (radicali, rivoluzionari trotzkisti, riformisti e socialisti) ma dato origine sempre e soltanto a forme di supplenza politica che non rigettavano l'ossatura strategica e culturale del marxismo, la seconda aveva inconsapevolmente dato origine ad una variante molto lontana dalle origini conservatrici. 

Era semplicemente successo che, nel 1944 all'interno del campo liberale anglosassone, con il loro tipico pragmatismo, era emersa la esigenza di adottare una variante più solidale di quel sistema, da costruire assieme ai laburisti, che prevedesse uno sviluppo economico legato ad un mercato mitigato nella sua forza selvaggia da regole precise, in cui le Istituzioni dovessero svolgere un ruolo fortemente programmatorio di soddisfazione dei bisogni sociali. In buona sostanza questo progetto, che autodefinirono liberal-laburista, acronimo fortunato lib-lab, prevedeva una forte compenetrazione tra sistema pubblico e privato (lavorare per progetti, per budget, etc). Il succo politico della operazione andò oltre ogni aspettativa e prospettiva perché, di fatto, guadagnò una accezione di fare sinistra in maniera differente dalla variante marxista.. 

Da allora nulla è cambiato nel campo della sinistra: o ci si rifa, nel fare Politica, alle ascendenze 
culturali di stampo marxista o si sposano gli obiettivi lib-lab. E questo dovrebbero essere i quadri sostanziali di riferimento di un popolo socialista allo sbando che voglia rifare Politica in maniera organica ed efficace. 

Al posto di irrazionali dispute semantiche e simbolologiche ai limiti dell'esoterico, di accorati appelli al rispetto di sempre cangianti e scarsamente fruibili regole statutarie, di confronti dialettici su come chi e quanti eravamo, di sollecitazioni generiche tipo Fede Speranza e Carità tendenti a non scontentare nessuno e a portare sotto le proprie bandiere il maggior (si fa per dire) numero di compagni, le uniche ragioni su cui ci si dovrebbe dividere e poi ricompattare sarebbero, se si vuole fare cosa seria che duri nel tempo, quella di DECLINARE gli obiettivi economico-sociali della iniziativa politica che si sta mettendo in essere. 

Perché, all'inizio, ho detto che vedo anche segnali positivi in questo senso? Perchè va dato atto a Bartolomei, ad esempio, di aver saltato il fosso dell'ambiguità e di essersi riposizionato con chiarezza sul primo versante; la tradizionale saggezza ed abilità tattica di Labellarte non potrà che sveltire questo processo, in cui si scorgono suggestioni della esperienza politica e culturale Lombardiana (più programmazione e più stato, maggiori contatti con la realtà sindacale dei lavoratori, etc). Auguri sinceri (anche al netto di atteggiamenti troppo pacifisti). 

Auguri che si meritano anche Nencini e Di Lello, solo tatticamente divisi, ma che, essendo stati portatori, con votazioni congiunte in Parlamento, in tutti questi anni di provvedimenti di carattere fortemente innovativo dai chiari connotati lib-lab, non possono che acclarare, nel prossimo futuro questa omogeneità strategica. 

Semmai ad essi (cambiano ma non di molto impostazione) mi sento di rivolgere un modestissimo appello: in giro c'è un'altra diaspora, meno evidente e strombazzata, quella dei liberal, soprattutto dopo che il buon Morando è andato ad applicare al governo le idee lib-lab e ha lasciato il campo. C'è lo spazio per rinverdire quelle idee, per aggiornarle aggrumando quanti si sentono un po' (mica tanto, solo un pochettino) orfani. Insomma sperimentiamo una Associazione Nazionale, magari sull'web, in cui tutti i liberi e forti lib-lab possano, costruendo, confrontarsi. Poi si vedrà. 


Carlo Vannini, già-socialista, osservatore ONU su DS (Diaspora Socialista, che continuerò ad osservare), per l'intanto liberal piddino.